Matilde, quando è nato il tuo amore per il cinema?
Non tanto tempo fa, come quello di un appassionato che ha iniziato fin da piccolo. Io sono diventata attrice per caso e fino a quel momento di cinema sapevo ben poco. Sono sempre andata in sala, ma non avevo una mia cultura e non ero in grado di distinguere i vari stili dei registi. Entrando poi a gamba tesa in questo mondo, ho inevitabilmente iniziato a documentarmi. Diciamo quindi che la mia passione nasce sei/sette anni fa, quando ho recitato nel mio primo film, Il Capitale Umano di Paolo Virzì; lì ho realizzato che ero entrata a far parte di un mondo incredibile – sia collaborando come attrice, sia come spettatrice. Oggi, quando vado a vedere un film, ho un occhio completamente diverso.
Il Capitale Umano ha rappresentato la tua consacrazione; grazie a questo film hai vinto un Nastro d’Argento, che per noi italiani è un po’ come un Golden Globe. Un inizio di carriera davvero importante. Poi, dal genere autoriale/drammatico, sei passata alla commedia, il che, almeno in Italia, non è frequente…
Vincere il Nastro d’Argento è stato un bellissimo inizio. Non solo, non è scontato iniziare una carriera con un tale regista e un tale cast: Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e molti altri. Di carattere però sono una strettamente legata alla realtà, per cui, più che il premio, quello che mi ha invogliato ad andare avanti con sete di conoscenza è il fatto di sapere poco. Intendo dire: mi sono resa conto di essere arrivata in un porto di persone che studiano e vivono questa industria come fosse la loro stessa vita. Io ero molto impreparata. Questo mi ha invogliato a spaziare tra i generi: oltre al drammatico c’è la commedia, altrettanto difficile. Anzi, essere comici e riuscire a far ridere in maniera non demenziale non è per nulla facile.
Hai recitato in alcune delle commedie migliori degli ultimi anni. Tra queste spiccano Belli di Papà con Diego Abatantuono e I Tre Moschettieri con Pierfrancesco Favino. Come è stato lavorare al fianco dei due attori che abbiamo appena citato?
Pierfrancesco è un grandissimo professionista e colpisce il fatto che lui sia bravo a fare tutto. Ne I Tre Moschettieri doveva recitare, far ridere, far piangere ma anche cavalcare, tirare di spada; il suo D’Artagnan è un po’ goffo, tonto… aveva davvero tantissime cose da fare e lui è riuscito a metterle insieme tutte quante alla perfezione. Un grandissimo professionista. In più è anche una persona molto simpatica, è un piacere averlo sul set. Per quanto riguarda Diego, tra noi è nata una enorme amicizia: ci sentiamo regolarmente, ci vediamo. Purtroppo ci divide la fede calcistica: lui è milanista e io interista, ma questo non ci impedisce di guardare le partite insieme. Mi sono affezionata tantissimo a lui quando cinque anni fa abbiamo girato insieme, mi ha spiegato molte tecniche della recitazione in commedia, sui tempi per esempio. È stato generoso, perché mi ha insegnato cose che lui ha imparato in anni e anni di lavoro e a me le ha dette tutte quante insieme. Più o meno è come se tu mettessi via una moneta ogni giorno per tanto tempo e poi arrivasse per caso una persona e tu le donassi tutte le monete che hai risparmiato.
Purtroppo in Italia c’è uno iato profondo tra la commedia e il film autoriale. Forse un giorno si incontreranno.
Sarebbe bello. A volte trovo che nel cinema ci sia un po’ di snobismo; capita che se un attore o un’attrice decide di dedicarsi a un progetto più popolare poi non possa più tornare al cinema autoriale, perché è come se si fosse sporcato con il pop. Io questa cosa non la condivido, perché un attore deve poter fare tutti gli stili che vuole, passando liberamente dall’uno all’altro. Io mi auguro di poter fare così e davvero spero che in futuro ci sia un contatto tra popolare e autoriale. Certo, tra loro sono diversi, ma mi piacciono allo stesso modo.