E quindi, giustamente, passiamo a parlare di The Post. È il 1971: Kay Graham (Meryl Streep) è diventata, dopo il suicidio del marito, la proprietaria del Washington Post, un quotidiano già allora importante, ma in grave crisi economica. Proprio quando il Post sta per essere quotato in borsa, il New York Times pubblica la notizia dei Pentagon Papers, uno studio che dimostra che la feroce guerra in Vietnam poteva già concludersi da diversi anni e che gli ultimi Presidenti hanno mentito al popolo americano. Il Governo Nixon vieta al Times di pubblicare ulteriori informazioni sul caso e allora il direttore del Post, Ben Bradlee (Tom Hanks), decide di intervenire, trovare i documenti del Pentagono e pubblicarli. Ma per poterlo fare Bradlee ha bisogno dell’appoggio della sgnora Graham, la quale sa bene che sfidare le forze politiche potrebbe rappresentare la definitiva pietra tombale sul quotidiano.
La scelta è il tema portante del film e pone una domanda profonda: quando il troppo sarà troppo? The Post esce in un momento delicato per il popolo americano. La situazione storica in cui viene calato il film serve solo per rendere solido l’asse narrativo, ma gli stessi temi potrebbero essere trasposti ad oggi. L’intento del regista, il quale ha scelto non a caso i due attori protagonisti – ricordiamo il monologo di Meryl Streep contro la politica di Trump alla scorsa notte degli Oscar -, è dichiaratamente quello di chiedere al popolo chi governi gli Stati Uniti: i governanti o il popolo? The Post si aggiunge al filone dei film per la battaglia ai diritti di libertà di stampa. Conscio di questo, Spielberg ha pensato bene di affiancare alla giovane sceneggiatrice Liz Hannah, Josh Singer, premio Oscar per Il Caso Spotlight. E di Oscar già se ne parla. Sembrano imminenti infatti le nomination per Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice Protagonista, Miglior Attore non protagonista e Miglior Colonna sonora.