By Alessandra Mazzolari
25 Ottobre 2017
“Cosa indossava?”. “Forse era vestita troppo provocante”. Troppo spesso ancora ci capita di sentire certe allusioni: lette così sembrerebbe che la causa scatenante della violenza sessuale (fisica o verbale) scaturisca da una provocazione della vittima piuttosto che dal comportamento deviato dell’aggressore. Frasi incresciose ogni tanto spuntano qua e là (ahimè) sui social network: è per stroncare sul nascere certi pregiudizi c offrire seri spunti di riflessione che presso lo storico ateneo di Kansas University è stata organizzata la mostra “What Were you Wearing?”. Il vestito che si indossa non può rappresentare un problema, e quindi Jen Broackman (organizzatrice della mostra e Direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale del Kansas) ha deciso di raccogliere le testimonianze di chi ha provato sulla propria pelle un’esperienza così terribile, esorcizzando il senso di colpa delle vittime attraverso i vestiti esposti. “Vogliamo che le persone possano vedere se stesse riflesse nelle storie, negli abiti”.
La mostra ha riscosso consensi e plausi da tutto il globo, tanto che è in cantiere una versione virtuale. Storie provenienti da diciotto studenti del Midwest: una ferita condivisa via social media, con una testimonianza tramite telefono o addirittura inviando una copia del proprio diario personale. “Molti sopravvissuti hanno visitato la mostra – ha spiegato Brockman – e hanno capito che non avevano alcuna colpa per quello che gli era successo. Essere in grado di trovare pace per i superstiti e creare un momento di consapevolezza per la comunità è il vero obiettivo del progetto“. Un piccolo traguardo per chi sta affrontando un lungo percorso di recupero, un sostegno per coloro che hanno dovuto sopportare la stessa sorte senza riuscire a gridare il proprio dolore.