Jon Foreman, magnifico interprete della Land Art


Nata negli Stati Uniti d’America tra il 1967 e il 1968, la Land Art è una forma d’arte contraddistinta dall’intervento diretto dell’artista sul territorio naturale, privilegiando distese incontaminate quali spiagge, deserti, coste marine, praterie, zone lacustri, foreste, fiumi. Pratiche artistiche pregnanti e suggestive, atte a instaurare una sintonia assoluta e viscerale tra uomo e paesaggio. È una coerenza di livelli, un’armonia totale, un dialogo profondo tra creatività ed esistente. È il respiro condiviso della vita.


Dunque, assai più di una corrente artistica, qui si esprime l’appartenenza e l’amore verso il pianeta terra. Nonché verso una forma di libertà rispetto al tempo e allo spazio: le opere hanno spesso carattere effimero e si sviluppano in luoghi aperti, svincolati dall’algida monumentalità schematica delle metropoli, dalle sterili location deputate alle esposizioni e dalle aree urbane caratterizzate dalla presenza di istituzioni. L’intento è di espandere l’azione oltre ogni misura, calandola direttamente, in presa diretta, nella realtà, sia cosmica che mentale, superando così il concetto di processo creativo finalizzato a concepire un prodotto oggetto/icona, statico e definitivo. L’antitesi con il figurativismo della pop art e con le fredde geometrie della minimal art è evidente e spiazzante. I confini convenzionali della pittura e della scultura vengono irrevocabilmente scompaginati a favore di un’inedita e mirata relazione tra arte e mondo, tra concretezza dell’ambiente fisico e sua sublimazione.

Si accetta, anzi si abbraccia, una mutevolezza insita; i progetti progrediscono attraverso una performance che adotta un procedimento, un ambito di natura, un’opportunità e un intervallo temporale. Non a caso, l’obiettivo di tali operazioni è testimoniare l’ineffabilità di un tutto soggetto a continue, ineluttabili metamorfosi, di prerogative umane limitate e friabili al cospetto delle forze universali. Forze ingestibili e poderose, imperterrite nel loro rammentarci la nostra caducità.


La land art di Jon Foreman
Trattando di land art contemporanea, non si può non evidenziare e decantare l’artista Jon Foreman che, utilizzando in loco terra, rocce, ghiaia, sabbia, conchiglie, frasche e muschi, attraverso scavi, tracciati, accumulazioni realizza strabilianti sculture. La maggior parte del suo lavoro si svolge sulle coste e sulle spiagge del Pembrokeshire, contea del sud-ovest del Galles, Regno Unito, dove è cresciuto e dove tutt’ora vive con la famiglia.


Foreman, interloquendo col panorama, vi si interseca in modo rispettoso e la materia si appoggia alla stessa maniera dei concetti: sono pensieri forgiati. Si attua una specie di fase delle fasi tanto che ogni passaggio “si inserisce perfettamente nel ciclo ecologico”, come lui stesso afferma. In tale coesistenza pacifica e riguardosa che trascende in affinità trepida egli, con gli strumenti che il territorio gli offre e sempre nell’inevitabile baricentro della tridimensionalità, sposta e profila col gesto. Gesti silenziosi che svegliano il silenzio e insieme cantano il creato.


Titano solitario, imbastisce orditi che le maree, o il vento, o il trascorrere delle stagioni poi cancellano, a significare quanto l’energia primordiale sia sovrana: riassorbe, fagocita, annulla imperturbabile. Seducente e severa. Indifferente ai nostri tentativi di truccarla o addomesticarla.


Tra gli sbalorditivi elaborati di Jon Foreman si annoverano composizioni dalle più svariate dimensioni, da poche decine di centimetri a opere dal diametro ciclopico, eccezionali se contemplate dall’alto: all’ammirazione per l’effettiva bellezza del disegno nella sua completezza, si accompagna una sensazione di meravigliata serenità, di supremo compimento: l’impronta di un’euritmia così persuasiva che lontananze e presenza, elementi naturali e sogno convergono in un alito di autentica complicità.


Poetiche e danzanti si propongono invece le realizzazioni vegetali, ricamate su tronchi, prati, chiazze arboree. In esse l’artista dissemina foglie, ramoscelli, petali a guisa di segnali, schegge di transumanze bibliche, invisibili vie della fatica o del gioco, itinerari di domande ancora intatte. E la serietà resta sospesa in una riflessione allegra. Quasi che una primavera aggiunta acconsentisse con grazia a estrose agilità di ventate avvolgenti.




Nella produzione di questo performer ricorre sovente una figura: il cerchio, concentrato di simbologie, ma principalmente, non avendo né un inizio né una fine, emblema di continuità per eccellenza. Cerchio, circonferenza, sfera… globo terrestre, anch’esso con le sue periodiche sequenze, coi suoi ritmi che tornano e ritornano alimentandosi uno con l’altro in un fluire senza interruzioni, a dimostrare che nella transitorietà non c’è un arresto, bensì una proporzione di persistenza. Profetica e conciliante.



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